Intervista d’Autrice

In occasione della Mostra di Arte Contemporanea del 6 Settembre - Dantebus Firenze, ho avuto il piacere di raccontarmi attraverso un’intervista. Le domande erano stimolanti, qualcuna anche inaspettata, e mi sono divertita a rispondere in modo spontaneo, “a braccio” per così dire.

È stato un po’ come fare una chiacchierata a cuore aperto, tra riflessioni e arte.

Qui sotto trovi l’intervista completa, con tutte le domande e le mie risposte.





In che modo ha selezionato l’opera da esporre? Quale valore ha per lei e cosa desidera trasmettere agli spettatori attraverso la sua opera?

Ho scelto quest’opera perché volevo indagare il tema dell’attimo prima: quel momento sospeso che precede ogni cosa, le cosiddette “farfalle nello stomaco”. Prima di un bacio, di una carezza, di un contatto che desideri ma che ancora non sai se accadrà. C’è attesa, desiderio, ma anche un lieve timore. Le due mani che si cercano e si sfiorano raccontano proprio questo: una ricerca di contatto non ancora compiuta. Quello che desidero trasmettere è l’intensità di quell’istante di sospensione, perché se il gesto compiuto è bello e appagante, è il momento che lo precede a racchiudere la massima forza emotiva. È lì che si concentrano aspettativa, passione e vulnerabilità. È lì che tutto è ancora possibile.

Quali sono i suoi punti di riferimento artistici? Quali autori l’hanno più influenzata a livello stilistico e perché?

I miei punti di riferimento artistici sono diversi, ma tutti hanno alimentato in me la stessa passione: quella per l’arte come specchio dell’interiorità e come linguaggio universale. Da Klimt ho imparato che il contatto può essere poesia: i suoi intrecci di corpi e le sue atmosfere sospese mi hanno insegnato a guardare al gesto come a qualcosa che non è solo fisico, ma intriso di simboli, intimità ed emozioni profonde. Van Gogh mi ha dato il colore come vita. Nei suoi cieli e nei suoi campi non vedo solo paesaggi, ma vibrazioni, battiti, emozioni che esplodono sulla tela. È la stessa forza che cerco nei miei dipinti, quando uso i contrasti cromatici non per descrivere, ma per far sentire. Modigliani per me è quasi una presenza costante. Nei suoi volti allungati e negli occhi senza pupille trovo quella ricerca dell’anima più che della forma, quella tensione verso una bellezza fragile e interiore. È un approccio che sento vicino al mio: non inseguire la perfezione anatomica, ma l’essenza emotiva. Schiele, con la sua linea nervosa e i corpi inquieti, mi ha insegnato il coraggio della verità: non edulcorare, non addolcire, ma lasciare che la forza dell’emozione si incarni nel segno, anche se crudo. Questo mi ha spinto a fidarmi della mia mano, del gesto, dell’imperfezione come forma di sincerità. Infine Rodin: nelle sue sculture percepisco il peso e la delicatezza del corpo, la tensione tra movimento e staticità. Da lui ho imparato che la materia, anche quando sembra dura e immobile, può farsi carne viva. È un insegnamento che porto nel mio lavoro, quando cerco di trasformare la tela in qualcosa di pulsante, quasi tattile. Questi artisti mi hanno insegnato che l’arte non è mai solo tecnica o rappresentazione, ma un atto emotivo e intellettuale insieme. Grazie a loro lo studio per me non è stato un dovere, ma una scoperta appassionante: un cammino che continua a intrecciarsi con la mia pittura e con la mia vita.

Come realizza i suoi dipinti? Ha già un’idea chiara e definitiva di cosa andrà a dipingere oppure costruisce l’opera in momenti e fasi differenti?

I miei dipinti nascono sempre da un concetto, da un’immagine che per me rappresenta una percezione interiore. In questo caso, ad esempio, volevo esprimere l’attimo prima, e la prima immagine che mi è venuta alla mente sono state due mani che si cercano: un gesto semplice, ma capace di dire che ancora non è accaduto nulla, eppure tutto potrebbe accadere. Il processo non è mai lineare. L’idea iniziale è più sentimentale che visiva e, mentre la porto sulla tela, prende forma, si modifica, cresce. Spesso il risultato finale non somiglia affatto all’idea di partenza, ma riesce paradossalmente a essere molto più fedele al sentimento che volevo trasmettere. Non lavoro quindi con progetti definitivi, ma con un continuo work in progress. Anche il concetto di “opera finita” per me resta relativo: una volta mi hanno chiesto come faccia un’artista a capire quando un quadro è davvero concluso, e la mia risposta è stata che forse nessuno lo sa. Arriva solo un momento in cui guardo la tela e riconosco in essa quella sensazione iniziale: è lì, e allora per me basta. Ma ogni volta che torno a riguardarla, nasce sempre la tentazione di cambiare qualcosa.

Quali sono le tecniche che preferisce utilizzare e perché? Acrilico, olio, acquerello, tecnica mista…

Utilizzo prevalentemente l’acrilico su tela, partendo quasi sempre da un bozzetto scuro fatto a penna, matita o carboncino. Da lì inizio a lavorare con pennelli, spatole e spesso con oggetti nati per tutt’altro uso: plastica a bolle, carta stagnola, carta da forno… persino le dita. Mi piace riadattare ciò che trovo, perché ogni superficie reagisce al colore in modo diverso e apre possibilità inattese. Quello che mi interessa non è tanto la forma perfetta, pulita e lineare, quanto il dialogo tra i colori: i contrasti tra chiari e scuri, caldo e freddo, i punti di fusione. È attraverso queste armonie e tensioni cromatiche che comunico le mie emozioni. Alla fine, il processo diventa quasi fisico: mi ritrovo sempre immersa nel colore, con le mani e i vestiti macchiati, come se non ci fosse più confine tra me e la tela.

“L’arte è fatta per disturbare, la scienza per rassicurare” sosteneva Salvador Dalì. Può commentare questa citazione?

Trovo che la frase di Dalí colga una distinzione interessante: la scienza rassicura perché cerca certezze, studia i fatti nella loro evidenza e offre risposte verificabili. L’arte, invece, non ha vincoli di certezza: è libera di andare oltre, di mettere in discussione, di inquietare. Può essere bellezza e contemplazione, ma anche protesta, atto politico, voce che rompe il silenzio. È stata parte integrante di ogni società: la ritroviamo nell’architettura, nella moda e nella natura stessa. Un esempio lampante: il movimento femminista e l’arte sono andati di pari passo. Già negli anni ’60 e ’70 le artiste si sono mobilitate per reclamare visibilità. Il celebre Dinner Party di Judy Chicago (1974–79), con la sua tavola triangolare e i nomi di donne straordinarie incisi in oro, è diventato un’icona di riconoscimento collettivo. Progetti come Womanhouse (1972), ideato da Judy Chicago e Miriam Schapiro, trasformavano intere case abbandonate in installazioni performative che raccontavano ruoli femminili e dinamiche domestiche con ironia acuta e coraggio politico. Più avanti, collettivi come le Guerrilla Girls hanno preso a ribalta musei prestigiosi con poster satirici, numeri e slogan diretti: “Do women have to be naked to get into the Met. Museum?” per denunciare la disparità nella rappresentazione femminile. Anche nel design e nell’abbigliamento l’arte ha fatto da megafono: la minigonna, popolarizzata da Mary Quant negli anni ’60, è diventata simbolo di liberazione femminile, un gesto visivamente semplice che portava con sé un messaggio radicale di autonomia e rottura di rigidi codici sociali. L’arte femminista, in tutte le sue forme, non rassicura: disturba, scuote, rende visibile ciò che spesso sta nell’ombra. E in questo sta la sua potenza. È qui che trova posto, anche, la mia voce.

Fiorella Valeria Paolini

Sono Fiorella Valeria Paolini, artista e designer.

La mia ricerca nasce dall’esigenza di esprimere emozioni attraverso il colore e di progettare esperienze che mettano al centro le persone. Nell’arte cerco libertà e comunità, nel design un linguaggio capace di unire: marketing e UX/UI diventano strumenti per creare connessioni inclusive, accessibili e significative.

Ogni progetto, sia esso un quadro o un’interfaccia, porta con sé la stessa intenzione: rendere l’esperienza umana più aperta, condivisa e autentica.

https://fvpartdesign.com
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